lunedì 12 maggio 2014

Scritto nel Sangue - Prologo

Prologo.
Cinquecento anni prima.


 


Re Uthor il Magnifico, scortato dalle sue guardie personali, entrò con passo svelto nel laboratorio, fermandosi di fronte alla porta. Era una vasta sala rettangolare, permeata da un odore pungente che  proveniva da una nuvola di vapore rossastra, simile a nebbia, che pervadeva l’intera stanza. Tutt’attorno a lui era un viavai confuso di alchimisti che studiavano reazioni e scrivevano formule, andando da un tavolo all’altro per analizzare i processi, valutare gli errori e confrontarsi fra loro.
Alla sinistra del Re, era presente una grossa lavagna, fitta di glifi e combinazioni matematiche, incomprensibili agli occhi di Uthor. D'avanti a lui, vi erano un paio di alchimisti, che discutevano animatamente su un fantomatico “fattore di stabilità”; alla sua destra, file e file di grossi banchi da lavoro in legno, su cui erano poggiate ampolle, alambicchi e fornelletti di varie forme e dimensioni, in cui ribollivano sostanze di natura e colori molto diversi; una decina di alchimisti si spostavano velocemente da un tavolo all’altro controllando temperatura, colore e densità di un particolare liquido ambrato, il quale poi veniva travasato, filtrato e rimescolato, cambiando tonalità ad ogni fase del processo, fino a diventare cremisi.

A Uthor ricordavano proprio tante formiche agitate, come se qualcuno avesse appena introdotto una goccia di ammoniaca nel formicaio.

“Era sempre così quando si trattava di alchimisti” pensava il Re. Una gran confusione, eruditi con la testa altrove che parlavano linguaggi astrusi, tanto da assumere un atteggiamento di condiscendenza, sentendosi in qualche modo superiori al resto del mondo. Loro avevano studiato, avevano la scienza assoluta. 
Uthor li odiava tutti, dal primo all’ultimo.
Da quando aveva piegato con la forza Rajan e deposto l’Arconte, aveva al suo servizio tutta la scienza di cui la città disponeva. La città più sviluppata del mondo, nulla aveva potuto contro le sue orde di guerrieri. Barbari li chiamavano; ma quei barbari avevano vinto con la sola forza delle loro spade e ora Rajan era sua, scienza compresa. Ma come Uthor dimostrò con la sua vittoria, la tecnologia da sola non bastava per unificare tutto il continente sotto un unico cielo, in un unico stato: le altre nazioni si erano alleate contro di lui, rendendo chiaro che nulla avrebbe potuto contro i loro eserciti riuniti; ed era vero, purtroppo, pensò sbuffando. Per questo motivo aveva accettato e tollerato fino ai limiti della sopportazione, questa masnada di studiosi: per vincere, per conquistare, per dominare.

Il giorno era arrivato, finalmente; il giorno in cui tutto era pronto, almeno a sentire questa manica di dementi paludati.
C’erano voluti vent’anni. Vent’anni di attese interminabili, mentre lui esigeva risultati.
Aveva aspettato fin troppo questa guerra.
Si era quasi pentito, nel corso degli anni, di aver dato ascolto a questi mentecatti eppure le promesse erano allettanti, seducenti: creare un'arma, l’arma che gli avrebbe permesso di diventare imperatore. Questo gli era stato promesso e questo avrebbe ottenuto.
Aveva investito troppo denaro e troppe energie in questo progetto, per avere un qualsiasi tipo di ripensamento, soprattutto ora che gli restava così poco da vivere.
Suo figlio aveva l’età giusta per ereditare il regno e lui l’aveva forgiato come suo padre con lui: gli avrebbe lasciato un impero da governare, gli dei erano testimoni. Su tutto questo rifletteva, mentre osservava il laboratorio e i suoi occupanti.

Il Capo Alchimista, Magister Aleius, lo raggiunse e s'inchinò al suo cospetto.
« Sua Maestà, sono lieto che siate venuto: è tutto pronto, come vi avevamo promesso. »
« Bene. Quante unità avete testato? »
« Diecimila, sire; tanti sono stati i fallimenti, ma oramai ci siamo: abbiamo raggiunto la quota stabilita. »
Il Re annuì, compiaciuto.
« Duemila operative? »
« Sì maestà, in anticipo sulla tabella di marcia » rispose il magister, accordandosi all’umore del sovrano.
Uthor chiuse gli occhi e inspirò a fondo.
« La formula è sicura? »
Aleius esitò.
« Sire la formula funziona, è vero, ma è anche altamente instabile. Le perdite sono ancora alte, uno su cinque. Per ottenere i numeri che ci avevate chiesto, abbiamo sottoposto il trattamento a diecimila martiri. »
Uthor inarcò le sopracciglia.
« Mi avevi garantito la piena affidabilità. »
Il Capo Alchimista si tamponò la fronte con un fazzoletto, che aveva estratto dalla tasca.
« Sire, il tempo… »
Il Re, con uno scatto fulmineo, lo prese per la collottola e lo sollevò di qualche centimetro da terra, esclamando:
« Io non ho tempo, razza di verme! » Poi, con una vigorosa spinta, lo scaraventò su un banco da lavoro lì vicino, mentre gli uomini della sua scorta, mettevano mano all'elsa delle loro spade.
Tutto il laboratorio si pietrificò all'istante. Tutti si arrestarono guardando, chi terrorizzato chi incuriosito, quello che stava accadendo.
Dopo qualche attimo, alcuni apprendisti visibilmente preoccupati, si avvicinarono al magister e lo aiutarono a rimettersi in piedi.
« Va' a prendere quel tuo intruglio » comandò il sovrano. « Ora! »
Il capo alchimista guardò Uthor e, lisciandosi la tonaca con le mani, si voltò e uscì dal laboratorio. Tornò dopo pochi minuti con una fiala di vetro dal contenuto rossiccio; sembrava un concentrato, denso e scuro, di quella nebbia che pervadeva il laboratorio e turbinava nella fiala come un vortice.
Aleius allungò le mani tremanti verso Uthor, che gli strappò la fiala con un gesto secco e la stappò con malagrazia.
« Ti do un avvertimento vecchio: i miei uomini hanno l’ordine di uccidervi tutti se mi dovesse succedere qualcosa. Prega i tuoi dei che questa roba funzioni. »
Aleius sbiancò ma, pur con il volto contratto dal terrore, trovò in qualche modo la forza di annuire.

Il Re si cacciò in gola il liquido viscoso, che pareva sangue, con un unico lungo sorso.
La prima cosa che sentì fu il dolore; ovunque, dolore.
Assoluto, fulmineo, massacrante.
Durò solo qualche attimo, solo alcuni istanti che a lui parvero interminabili.
Poi iniziarono a scorre le lacrime. Rivoli di sangue gli solcavano le guance e sentì gli occhi bruciare, come qualcuno gli avesse infilato dei tizzoni ardenti nelle orbite.
Avvertiva una delle guardie che cercava di sostenerlo con il braccio, ma il dolore era troppo forte, troppo intenso. Iniziò a mancargli il respiro e, quando fu sul punto di crollare al suolo in preda agli spasmi, tutto finì, di colpo, com’era iniziato: all’improvviso stava di nuovo bene, si sentiva scoppiare di vitalità, come non ne aveva mai avuta.

« Ha… funzionato. » Disse il magister.
Uthor si guardò le mani: si sentiva colmo di vita, come se nel suo petto ardesse una forgia di pura energia, che aspettava solo di essere consumata. Si mosse a una velocità che non era umana, afferrò il capo alchimista e gli sfondò la testa con un unico, poderoso pugno.
« Sì » disse, guardandosi stupito le mani. « Ha funzionato. »
Sorrise, mentre il resto degli alchimisti iniziava ad urlare in preda al panico e all’orrore e, sempre sorridendo, si rivolse alle sue guardie:
« Uccideteli tutti quanti! Bruciate tutto! Non deve rimanere niente di questo posto! Niente! »

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